Lucca Underground Festival Contest 2016 

 “The great artist of tomorrow will go underground” (Marchel Duchamp, Filadelfia, 1961)


lufcontest16

Terzo Classificato

Lucca Underground Festival Contest 2016

NEL BOSCO A SETTEMBRE - di Fabrizio Castellani

Sono in tre, tutti sotto i trent'anni e puzzano di birra calda, sigarette e sudore. Capelli corti e barbe ispide, indossano gli occhiali scuri anche qui, chiusi tra le pareti di legno del rifugio. Non è fatto da brave persone il loro piccolo branco.
Questa non è gente del posto come me o la vecchia; vengono dalla città ed è meglio non averci niente a che fare.
Sono entrati e hanno iniziato subito a bere; ridono spesso. Ogni risata è un sorso di birra in corpo e un cenno d'intesa mentre guardano la ragazza seduta da sola due tavoli più lontana.
Anche lei viene dalla città e puzza di sudore e tristezza.
Vorrei evitarlo ma gli odori di tutti quelli qui dentro mi assalgono, nonostante sia ancora giorno e me ne stia seduto distante.
Mentre il fumo e il caldo della brace che arde nel
caminetto invadono la stanza avverto anche la presenza della vecchia, che non vedo perché sta di là in cucina davanti al forno. Pure Mina accucciata ai miei piedi sotto la panca li percepisce tutti.

I tre maschi sembrano cacciatori di funghi: scarponi, jeans, giacche colorate. Ma hanno il cesto vuoto anche se nei dintorni i porcini abbondano.
La ragazza invece è un'escursionista. Poggiato al suo fianco ha uno zaino così grande che potrebbe dormirci dentro. Appena entrata si è tolta la giacca, ha levato via anche la maglia e l'ha stesa sulla sedia vicino al caminetto, ad asciugare il sudore della salita. Ha messo in mostra un seno giovane e piccolo, fasciato dal sottile tessuto grigio della canottiera. Deve avere qualche pensiero di troppo, lei. Ha i capelli lunghi e li tiene legati in una coda che ad ogni passo deve averle frustato le spalle. Il viso è un triangolo rovesciato dai contorni dritti, uno di quei volti che non riescono a nascondere i cattivi pensieri.

Forse è salita fino qui proprio per lavarli via i brutti pensieri: non mi pare ci sia riuscita. Appoggia sul banco, davanti a un piatto di polenta mangiato a metà, due braccia magre come canne di bambù. Dal mio posto non vedo le gambe che se sono come immagino, avrà fatto una gran fatica a salire e altrettanta ne farà a scendere. Se scenderà, visto come il piccolo branco la punta. Mi chiedo come faccia a non accorgersene, ma non sono fatti miei.

É pericoloso avere cattivi pensieri, perché uno ci si accartoccia come se dovesse proteggerli e custodirli. Starci troppo sopra distrae e nasconde le insidie: una buca, una radice sporgente, il branco. A queste altezze invece i pensieri devi farli leggeri, come quelle nuvole che qui a volte ti sfiorano, e poi soffiarli via. Ma i pensieri nella testa degli altri sono fatti loro.

La vecchia esce dalla cucina strascicando i piedi e mi mette davanti un piatto di salsicce fumanti. La carne bruciata sfrigola e sotto ai denti è calda e saporita.

Cerco di fissarne il sapore nella mente, mantenere dentro la testa il ricordo che lascia sulla lingua e nella bocca. Mi servirà all'alba quando vomiterò la notte tra i boschi.

Tra meno di un'ora calerà il buio e dentro al rifugio siamo rimasti noi cinque, oltre alla vecchia. Quassù lei ci vive da sola e negli anni non ho mai visto nessuno chiedere da dormire in questo rifugio da quattro soldi. Ci si arriva dal sentiero o percorrendo una mulattiera dove anche gli asini stentano. Nei dintorni bosco, rocce e qualche torrente: troppo poco per attirare i turisti. I clienti sono pescatori di trote, cercatori di funghi, escursionisti. Sempre poca gente: cinque persone tutte assieme qui dentro sono una folla.

La ragazza si sveglia di colpo dal torpore che la teneva inchiodata alla sedia. Si alza e comincia a rivestirsi alla svelta. Quando carica lo zaino in spalla barcolla, ma resta comunque in piedi. Avevo ragione sulle gambe: smilze quanto le braccia. Passa dalla cassa e paga. È ben educata e saluta prima di chiudersi la porta alle spalle, ma nessuno le risponde. I ragazzi del piccolo branco non ridono più: la seguono con gli occhi, poi si alzano. Lei non arriverà a valle prima che cali la notte. Ma non mi riguarda.

Quando mi passano davanti il loro tanfo mi dà la nausea e Mina, accucciata ai miei piedi, lo sente ancor più forte di me: drizza le orecchie, stringe gli occhi gialli, ringhia.

Uno, quello più alto, indossa un piumino rosso senza maniche. Al ringhio di Mina questo si spaventa e salta di lato mollando nell'aria una bestemmia. Faccio finta di non aver sentito e non alzo gli occhi su di lui. Mi sento addosso il suo sguardo e ho un fremito nel sangue. Resto immobile, lo sguardo fisso nel piatto che ho di fronte, una mano sotto al tavolo a stringere il pelo fulvo di Mina. Non voglio guai, non voglio problemi.

Per fortuna qualcuno lo prende per un braccio e lo porta via: debbono sbrigarsi se vogliono arrivare alla ragazza. Non sono fatti miei, mi ripeto. É gente di città, che se la sbrighino tra loro.

Resto solo nella sala e immergo un pezzo di pane nell'olio tinto dal rosso del sangue colato dalle salsicce. Nelle narici il fumo si mischia al profumo del finocchio selvatico, il pane salato brucia la lingua e in bocca arriva un sapore dolce e metallico al tempo stesso.

“Fra poco sarà buio. Non è bella la scesa nel bosco con il buio.” mi dice la vecchia quando passo a pagare il mio conto.
“Pianto la tenda qui vicino” le rispondo afferrando lo zaino.

“Immaginavo” e scrolla le spalle come a dire: ti ho riconosciuto.
Riesco pure a sorriderle; appena un poco però, perché già sento le gengive che dolgono e le unghie che pulsano.
Mi nascondo qui un paio di giorni al mese, ogni volta che la luna mi chiama. Conosco i dintorni a memoria; ogni albero e ogni radice, ogni roccia e ogni torrente che solca questo versante della montagna.
Fuori l'aria di settembre è fredda, non c'è neanche una nuvola mentre la luna mostra già la sua faccia rotonda. Le prime stelle iniziano a bucare il telo blu del cielo.
“Tra poco sarà ora”, dico a Mina che in risposta struscia il muso contro la mia coscia per poi lanciare un guaito che ammutolisce quel che resta del giorno. Faccio il giro del rifugio e tra i ciocchi della legnaia nascondo lo zaino che riprenderò domani.
Ho d'improvviso voglia di correre e mi lancio seguendo il sentiero che si perde nel folto del bosco, poi devio e saltando un tronco caduto mi inoltro nella macchia. Qui il buio è già arrivato ma vedo bene i contorni gialli degli alberi; vedo i massi, vedo le buche. Mina è al mio fianco e corre felice.
La luna è la sola signora del cielo quando tutto accade. L'aria d'improvviso mi viene strappata via dai polmoni con una violenza che non mi lascia il tempo di un grido, così quello che esce dalla gola è solo un rantolo soffocato. I muscoli si contraggono e tirano costole e pelle, spaccandomi da dentro. La testa si piega all'indietro mentre un dolore accecante mi attraversa la spina dorsale. Vorrei cadere in un oblio misericordioso ma so che non accadrà. Posso solo rotolarmi a terra, tra brandelli strappati di pelle e vestiti, aspettando la fine. Tra le lacrime intravedo il corpo di Mina che si contorce a pochi passi da me: le sue zampe si allungano, il pelo si accorcia e ispessisce. Il suo martirio è un doloroso riflesso del mio.
Pochi istanti ancora poi tutto finisce e tutto è cambiato. Mina ed io non siamo più noi.
Entrambi stiamo in piedi su due zampe robuste, con gli artigli che affondano nel terreno morbido mentre il pelo scuro e folto ci protegge dal freddo della notte. Mina è una bellissima femmina e con la punta delle orecchie sfiora i rami più bassi degli alberi. Muove il muso a destra e a sinistra come se cercasse qualcosa di smarrito. Io tiro indietro il collo e il mio ululato è il richiamo alla luna del capobranco. Un gufo appollaiato su un ramo ci osserva silenzioso mentre pochi passi più in là un topo fugge spaventato. Mille sensazioni mi si rovesciano in testa: vorrei correre, accoppiarmi, cacciare, mangiare.

Sono sempre confusi i primi istanti, quando le notti di luna piena ci lasciano creature a metà, né uomini né animali.
L'urlo della ragazza rompe il silenzio. D'istinto le narici dilatate si bevono l'aria e sento di nuovo la puzza; birra, sudore, paura. Il piccolo branco di umani ha raggiunto la sua preda a qualche centinaio di metri da noi.
La gente di città non ci riguarda, ma il bosco è nostro: siamo noi il branco.
I muscoli si tendono e corriamo.
Impiego pochi istanti per raggiungerli e quando azzanno il primo degli umani brandelli di carne si confondono con la stoffa del piumino rosso.
Mina è alle mie spalle. I nostri artigli si sporcano presto di sangue e mentre grida disperate scuotono la notte noi frantumiamo le ossa e banchettiamo con le loro viscere.
Quando il piccolo branco non c'è più e il silenzio torna, Mina ed io ci voltiamo verso la ragazza. Ha la schiena schiacciata contro il tronco di un albero, gli occhi sbarrati dal terrore. Ci guarda mentre ci avviciniamo, odora di urina e paura. I pochi indumenti che ha salvato dalla furia dagli umani sono chiazzati di sangue e terra sporca.
È il suo l'ultimo grido in questa notte di luna piena.